Anna Bartalini, con cui avevamo parlato di agroecologia, ci racconta la sua esperienza di lavoro con Mani Tese tra l’Italia e la Guinea Bissau.
La collaborazione con Mani Tese
Il mio percorso con Mani Tese è iniziato grazie ad un tirocinio di sei mesi ad ottobre 2021, in piena pandemia. Il Master in Cooperazione Internazionale dell’ISPI offre un servizio di orientamento agli studenti per svolgere un tirocinio formativo in Italia o all’estero. In quel periodo, vista la situazione di incertezza in cui versavano l’Italia e il mondo, non mi sentivo pronta ad allontanarmi da casa. Per questo motivo ho scelto di rimanere in Italia.
Durante il master ho capito che avrei preferito lavorare nell’ambito dello sviluppo piuttosto che nel settore umanitario. Questa scelta mi ha aiutata a fare la prima selezione. Cercavo però un’organizzazione attiva in Italia, ma conuna forte presenza all’estero, nel caso in cui mi fossi sentita pronta ad un’esperienza sul campo a fine tirocinio.
Al tempo stesso, i temi che più mi interessavano erano diritti umani, uguaglianza di genere, tutela dell’ambiente e sovranità alimentare. Durante il master, un docente dell’Università di Milano ci parlò di un progetto di cooperazione nella foresta Mau in Kenya, con Mani Tese. La presentazione mi colpì molto e capì che mi sarebbe piaciuto lavorare con loro.
Per questo motivo, quando si è aperta una vacancy per la sede di Milano ho subito mandato la mia application. Dopo sei mesi di tirocinio nell’area progettazione e cooperazione, ho continuato a collaborare con loro per altri quattro mesi. Nel corso di questo periodo ho iniziato a maturare l’idea di voler partire e vedere dal vivo l’operato di Mani Tese, in particolare in Guinea-Bissau. Finché non mi è stata offerta la possibilità di andarci come Junior Project Manager.
Entrare nel mondo della cooperazione
Il mio percorso in questo campo non è stato lineare ed è avvenuto a piccoli passi. Non sono mai stata una di quelle persone con il perenne sogno di partire e di fare volontariato. In triennale ho studiato relazioni internazionali e scienze politiche, senza una chiara idea di cosa fare dopo.
Per la magistrale avevo intenzione di studiare all’estero e mi sono iscritta ad una magistrale in Studi Internazionali all’Università di Aarhus, in Danimarca. Durante la magistrale era previsto un modulo sulla gestione di progetti nel mondo della cooperazione. Questo modulo prevedeva anche un lavoro pratico di sei mesi in team. Abbiamo dovuto elaborare e presentare una proposta di progetto, impersonando una società di consulenza. Nel nostro caso, ci era stata assegnata la scrittura di un progetto di Urban Youth Employment in Papua Nuova Guinea.
Questa esperienza, uno dei momenti più intensi e belli della mia vita, grazie anche all’amicizia creata con i miei compagni di team, mi ha convinta a specializzarmi nel campo della scrittura e gestione di progetti.
Avevo capito che per dedicarmi a questo mondo avevo bisogno di farlo con cognizione di causa, per sentire di poter essere davvero utile agli altri. Per questo motivo ho deciso di iscrivermi al Master dell’Ispi, per acquisire ed approfondire gli strumenti teorici necessari per lavorare nella cooperazione.
Durante la formazione del master ho trovato un ambiente adatto per mettere in dubbio ed analizzare le contraddizioni della cooperazione. Si tratta per me di un elemento necessario per rinnovare l’approccio della cooperazione e capire il ruolo che noi cooperanti possiamo e dovremmo avere. Un ruolo che dovrebbe essere secondario e non da protagonisti.
L’arrivo in Guinea Bissau
Durante la mia esperienza in sede a Milano, ho cominciato a seguire i progetti in Guinea-Bissau. Il mio interesse per questo piccolo Paese, tra Senegal e Guinea Equatoriale, di cui prima non avevo mai sentito parlare, è cresciuto sempre più
Ero ormai affascinata dalla sua storia e da quella del famoso leader indipendentista Amilcar Cabral. Ho cercato di avvicinarmi alla vita e alla cultura del Paese attraverso libri, ricerche, mappe, studi e film di Flora Gomes.
In verità niente avrebbe potuto davvero prepararmi all’esperienza iniziata a metà settembre dello scorso anno, quando sono atterrata all’aeroporto internazionale Osvaldo-Vieira di Bissau.
L’impatto è stato forte, non essendo mai stata né per turismo né per volontariato in Africa subsahariana. Nel corso dei cinque mesi ogni tanto mi appuntavo delle note. A fine settembre scrivevo “in queste prime due settimane ho sviluppato un nuovo rapporto con il calore e il sudore”. Una volta superato il primo “shock climatico”, ho iniziato a guardarmi intorno.
Indimenticabile la terra rossa, i taxi sgangherati, gli alberi di mango, di baobab, le mucche e i maiali che attraversano le poche “strade”, in parte asfaltate e piene di voragini, che compongono il centro della capitale.
I progetti in Guinea Bissau
In Guinea-Bissau ho lavorato come figura junior nella gestione di due progetti, principalmente nella capitale Bissau, ma ho partecipato anche a iniziative nelle regioni limitrofe. I progetti in cui ero coinvolta erano entrambi dedicati alla lotta contro la violenza di genere. Si tratta di un tema molto caro a Mani Tese che da anni lavora in questo fronte. In questo caso era declinato nella protezione e nell’inclusione sociale di donne e ragazze vittime di VBG o in situazioni di rischio.
Scrivevo report, partecipavo alla scrittura progettuale e facevo scouting di altri possibili donors e opportunità per nuove proposte progettuali. Supportavo inoltre anche la preparazione di materiali di comunicazione. Infine ho preparato e amministrato delle interviste alle beneficiarie di un progetto per valutare il lavoro fatto a Gabu.
Un progetto supportava il Centro di Accoglienza per vittime di violenza gestito dall’ong locale AMIC. Questa offre servizi di protezione e di assistenza gratuiti alle donne, ragazze e bambine vittime di violenza, in un Paese in cui non esistono centri di accoglienza nazionali o di Stato.
La violenza di genere in Guinea-Bissau è un fenomeno altamente diffuso, che si declina in varie forme. È un paese con un’alta incidenza di matrimoni forzati e/o precoci. Gli episodi di violenza domestica rimangono nel 90% dei casi impuniti ed è diffusa anche la mutilazione genitale femminile.
Nonostante questo, il progresso economico di intere comunità dipende quasi esclusivamente dal lavoro femminile, che rimane spesso invisibile. Le donne lavorano nei campi e nei mercati, indispensabile per l’approvvigionamento delle famiglie, si fanno carico dei lavori domestici e della cura di bambini e anziani.
Rendersi davvero conto di queste condizioni e capire le difficoltà reali delle donne è possibile solo vedendo con i propri occhi. Stando lì, accanto a loro, seppure in una posizione privilegiata.
Il secondo progetto mirava invece ad offrire corsi di formazione gratuiti in sartoria in un quartiere periferico di Bissau, per donne in situazione di difficoltà. Dalla vicinanza con queste donne ho imparato tanto. Per esempio, cosa abbia significato per loro poter accedere ad un corso professionalizzante. Per la prima volta mettersi al centro della propria vita ed investire su sé stesse.
L’esperienza più bella
L’esperienza più forte è legata a un lavoro svolto insieme ad una collega, immergendoci dieci giorni nei villaggi della regione di Gabu. L’obiettivo era capire, attraverso una serie di interviste, l’impatto dell’introduzione di tecniche agro-ecologiche sulla vita comunitaria e individuale delle donne.
Si trattava di un progetto di empowerment nella regione di Gabu, al confine con Senegal, in partnership con AIFO. Gabu è la seconda regione più grande del Paese, ma molto rurale e con una scarsità di infrastrutture rispetto a Bissau.
Mani Tese si occupava del rafforzamento della filiera agricola, con un approccio comunitario ed improntato all’agroecologia. Il mio obiettivo era quello di indagare quale fosse stato l’impatto di questo intervento sui vari campi orticoli e sulle donne che erano state coinvolte.
Dopo aver discusso a fondo con lo staff dell’ufficio di Gabu dell’andamento del progetto abbiamo intervistato le beneficiarie degli orti comunitari.
Siamo state sempre accompagnate dagli animatori del progetto. Ogni animatore era responsabile di un orto e da circa due anni ne seguiva il funzionamento e la crescita. Gli animatori ci hanno introdotto agli orti e ci hanno fatto da traduttori per le interviste
La varietà linguistica nel Paese è infatti notevole. Ci aspettavano delle interviste in kriol da tradurre in portoghese, che è la lingua ufficiale del Paese, ma viene parlata quasi esclusivamente nella capitale. Tuttavia molti dei partecipanti al progetto degli orti parlavano solamente fula. Il kriol è la lingua creola il cui lessico deriva dal portoghese, parlata da circa la metà della popolazione. Il fula invece è una lingua diffusa e parlata in vari Paesi dell’Africa occidentale, dominante nell’area di intervento.
Questa attività mi ha permesso di conoscere più in profondità una realtà molto diversa da Bissau. Anche a Bissau lavoravo a contatto con le donne beneficiarie dei progetti, ma in un ambito più urbano. Mentre a Gabu si trattava di donne che lavoravano nei campi, all’interno dei villaggi.
Ho potuto sperimentare anche l’accoglienza di queste comunità, che ci davano il benvenuto con una grande ospitalità. Abbiamo mangiato per una settimana futi, riso con olio di palma, che in Guinea-Bissau è presidio Slow-Food, con un battuto di verdure locali, come la kandja (okra) e il djagatu.
Le interviste sono state un vero learning by doing. Ovviamente avevamo preparato una serie di domande ma poi le domande iniziali state riviste in base alla comprensione e alle risposte delle persone. Dopo le interviste ci prendevamo il tempo di analizzare le risposte e capire come migliorare e rendere più efficace la modalità di intervista e il dialogo con le donne intervistate.
Lavorare nella sede centrale e sul campo
Come ci si può immaginare, lavorare sul campo e nella sede centrale sono due esperienze completamente diverse, entrambe con dei lati positivi ed alcuni negativi. Aver potuto provare entrambe le situazioni nella stessa organizzazione è qualcosa che può solo dare un valore aggiunto all’esperienza.
Lavorare dalla sede permette di approcciarsi al mondo della cooperazione rimanendo vicini alla propria famiglia e senza dover stravolgere la propria vita. Non implica doversi adattare a un nuovo Paese, una nuova cultura. Cioè uno sforzo a cui non si è pronti in ogni momento della vita. Dal lato negativo, per quanto uno si possa informare ed avere i dati e le statistiche sulle condizioni di benessere di un Paese, finché non ci si trova davanti alle situazioni concrete si fa fatica a realizzare qual è la realtà.
Dopo un po’ che lavoravo in sede su progetti della Guinea-Bissau, per quanto potessi sapere i nomi dei progetti e perfino delle persone coinvolte sentivo il bisogno di essere lì e di non dover dipendere soltanto da fonti secondarie per descrivere le condizioni del Paese.
Anche a livello lavorativo, dall’Italia spesso non mi rendevo conto di quali potessero essere le difficoltà nel portare avanti mansioni che in Italia possono sembrare ovvie e scontate. Per esempio, le difficoltà logistiche nell’organizzare un evento anche piccolo, in un Paese dove esistono poche strade asfaltate, che in determinati momenti della giornata diventano affollatissime e quindi impraticabili per la presenza del mercato.
Poter lavorare su entrambi i fronti, dunque, credo sia fondamentale per avere una chiara immagine delle difficoltà che i colleghi da entrambe le parti possano avere.
Sul campo spesso ci si ritrova a fare un po’ di tutto. Si è capo progetto, ma anche communication officer e logista, cosa che da un lato può fare un po’ paura ma permette di crescere tanto a livello personale e professionale. Per quanto io fossi interessata principalmente a progetti di empowerment femminile, sul campo si ha sempre l’opportunità di conoscere nel dettaglio anche gli altri progetti dell’organizzazione e quindi di espandere le proprie conoscenze.
Vivere sul campo è indubbiamente più faticoso. Credo che sia inevitabile che diventi più difficile fare una distinzione tra lavoro e vita personale, perché l’esperienza è molto più permeante, e capita che si frequenti tanti espatriati che più o meno ricoprono le stesse posizioni.
Consigli per aspiranti cooperanti
Ad un aspirante cooperante consiglierei di provare a capire in quale area geografica o tematica specializzarsi. In modo da poter orientare in maniera più efficace la propria ricerca del lavoro e in futuro poter dare un valore aggiunto ai progetti.
Tuttavia, mi sento anche di consigliare di partire anche per zone a cui non si era inizialmente interessati. Mai avrei pensato né di andare in Africa, né in un Paese lusofono, perchè ero orientata verso altre zone. Ma sono felice di aver colto l’opportunità di andare in Guinea Bissau.
Un terzo consiglio che darei è dedicarsi sempre allo studio di una lingua. Poter fin da subito comunicare ed esprimersi con i propri colleghi e con le persone locali è un fattore che facilita tantissimo la permanenza.
Credo che sia importante affrontare i momenti di transizione, tra un lavoro ed un altro, facendo ad esempio corsi di aggiornamento online. O approfondire una tematica che sta a cuore o fare volontariato per realtà locali, visto che le possibilità sono tantissime.